Il posto delle fragole

Un libro tutto bianco

«La distanza nasconde, sfuma o aiuta a veder meglio?» si chiede Ernesto Ferrero in: Album di famiglia, Maestri del Novecento ritratti dal vivo (Einaudi, 2022). Non è una domanda retorica, ma il cuore stesso del libro, la distance proustiana è infatti qui un filtro indispensabile per poter raccontare. «Romanzo famigliare» lo definisce l’autore ed è un’indicazione precisa se famiglia (editoriale) è quella «capace di pensarsi in termini di comunità».
Basterebbe del resto l’Indice a dare ragione del senso di questo libro e ci piace immaginare l’autore sorridere nel compilarlo dividendo tra loro Editori, Editor, Scrittori, Artisti e Consulenti in categorie dello spirito che da sole valgono una lettura: «I prediletti, I capotribù, I padri nobili, Gli zii sapienti, Le signore di ferro, Maghi e funamboli, Cari agli dèi, Gli inquieti, Compagni di banco, Mattatori». Un lungo excursus che attraversa anni formidabili dell’editoria italiana quando, nella seconda metà del Novecento, nascono le più belle Collane editoriali e prendono vita nuove Case editrici destinate a segnare un solco indelebile. A metterle in fila, oggi, viene una gran nostalgia in epoca di Editori rigorosamente generalisti.
Va peraltro detto subito che il punto di vista dell’autore è squisitamente einaudiano e non avrebbe potuto essere altrimenti. È la Casa editrice di via Biancamano il fulcro mobile di (quasi) ogni ritratto. Un luogo non solo fisico, ma uno spazio mentale preciso in cui Ferrero, che pur ha lavorato a lungo in altre Case editrici (Boringhieri, Garzanti, Mondadori), si sente a casa e a cui ha già dedicato altri memorabili scritti (cfr. I migliori anni della nostra vita, Feltrinelli, 2005). Un luogo dove l’Editore è uno solo e si chiama Giulio Einaudi.
Non si può quindi non partire da lui: «Direttore d’orchestra, fiero e non geloso delle intelligenze altrui», Einaudi come molti Editori di razza era un uomo dal fare concreto che cambiava spesso direzione di caccia, non solo sui testi, ma anche riguardo le persone di cui sceglieva di circondarsi. Le sue proverbiali provocazioni, al limite della disputa provocata, vengono però sempre “giustificate” se è vero che lui «provoca per educare autori e collaboratori», ed è evidente che tutti coloro che in qualche modo ne “subivano” il carattere, lo amavano perdutamente. Tutti innamorati di Einaudi, verrebbe da dire: «fa domande, ascolta molto», gli interessavano le persone, «i libri erano semplicemente uno strumento per raggiugerle». È questa, in sintesi, la differenza vera di un modo di fare editoria ormai impensabile. Oggi si parte quasi sempre dal mercato, da quel che si vende o si potrà vendere, ieri si partiva dalle idee, dagli scrittori, dai testi. Un’attenzione estrema alla scrittura e alla parola, a prescindere dalle vendite. Era un’editoria ideologica? Certamente sì, ma è proprio per questo che ha segnato profondamente intere generazioni. Ha saputo prender posizioni, ha anticipato il gusto dei lettori, a rischio di influenzarlo e indirizzarlo, ma non l’ha mai seguito, mai assecondato.
Ogni Casa editrice meriterebbe un libro così perché il vero lavoro editoriale sfugge alle ribalte e alle vetrine letterarie. Per sua stessa definizione non deve apparire, serve piuttosto ai libri e agli autori a farli arrivare al lettore. «Esserci sempre apparire mai», recita non a caso il famoso motto di Roberto Cerati. Braccio destro dell’Editore e sinistro dei suoi amici Librai, il sorridente frate laico che diventerà Presidente della Casa editrice, si faceva spesso garante di «quegli esseri ansiosi e insicuri che sono gli autori» e come molti della sua generazione credeva che «i buoni libri possano rendere un po’ migliori gli uomini». Ecco cosa accomuna le tantissime figure raccontate: il loro credere ai libri come veicoli di conoscenza. Credere alla Letteratura non solo in quanto espressione di un sistema di valori, ma in quanto mezzo per tentare di cambiare, o almeno provarci, la coscienza critica delle persone.
Vale per molti di loro, ma in particolare per il triunvirato che apre il capitolo sui «Capotribù»: Giulio Bollati, Paolo Boringhieri e Luciano Foà. Tre Editori che da soli hanno contrassegnato con il loro lavoro la storia editoriale italiana. Boringhieri, «silenzioso gentiluomo svizzero che ha portato la grande scienza in Italia» era l’esatto dell’editore «mattatore-domatore-protagonista» e aveva, come hanno i migliori, l’ambizione di passare inosservato, ricorda Ferrero che aveva diviso una stanza con lui: «Detestava i turgori dell’Io impennacchiato, avrebbe detto Gadda». La lettura del libro è anche un’occasione per scoprire qualche “altarino”, sulle monumentali traduzioni di Freud, «la direzione di Cesare Musatti non ha ricadute operative (…) di tedesco ne sapeva poco e tendeva a defilarsi», mentre emerge l’opera instancabile di Renata Colorni, curatrice delle Opere, che più tardi lascerà la Casa editrice per seguire l’amico Foà. Figlio di Augusto, primo Agente italiano, Foà è stato l’Editore di Adelphi che fonda a Milano nel 1962 grazie all’appoggio economico della famiglia Olivetti e agli illuminati consigli di Roberto Bazlen, vero nume tutelare ben oltre la sua scomparsa. Pietra angolare diventa l’edizione delle Opere di Nietzsche che «tante discussioni aveva suscitato in Einaudi» e di cui è garante la cura di Colli e Montinari. Infine, uno dei primi casi dei fulminei innamoramenti di Giulio Einaudi: Giulio Bollati, elegante e sapiente maestro di stile che riusciva più di altri a vedere il libro nel suo insieme e conosceva l’importanza di dedicare tempo a ogni dettaglio, dalla copertina agli apparati: «Scala rapidamente i gradi, reattore capo, poi direttore generale (…) il forte senso della dimensione storica lo spinge ad andare avanti, a prefigurare le svolte».
Ci sono libri in cui è facile entrare e da cui è difficilissimo uscire, perché si vorrebbe poterne leggere ancora e ancora, e davvero ogni persona raccontata dall’autore con piglio da romanziere merita un suo personale racconto. Figure leggendarie che hanno segnato un’epoca, come Erich Linder, il Principe degli Agenti, sopportato a fatica dagli Editori, ma amato dagli Scrittori per la sua grande sensibilità e capacità di vigilare su ogni dettaglio. Linder ha aiutato l’editoria italiana a passare da un artigianato un po’ arruffone a una fase industriale quantomeno più efficiente: «detestava il pressapochismo italico fatto di furbizia», aveva un’anima mitteleuropea e credeva che l’autore fosse una creatura dell’editore.
Era un’altra società letteraria, dove c’era meno frenesia, tempi più distesi, e una maggiore capacità di dar valore ai rapporti umani. Profili di protagonisti peraltro tutti differenti tra loro, dal minuscolo, ma grandissimo, Vanni Scheiwiller, alla Signora dell’editoria, Elvira Sellerio, che considerava il suo un lavoro di servizio e non di protagonismo: «un editore deve restare quanto più silenzioso, nascosto, taciturno. Il nostro è un mestiere di umiltà ma pochi lo intendono così». Lei ed Enzo Sellerio possedevano il senso compiuto della pagina, la capacità di armonizzare graficamente il rapporto tra vuoti e pieni che compongono un libro e hanno saputo diventare grandi senza rinunciare alla felicità di fare il libro. Incontriamo poi due giganti opposti e complementari: Inge Feltrinelli, vero Ministro europeo della cultura – ricca di un suo innato e colorato ottimismo e il desiderio di una continua contaminazione tra generi diversi – e Livio Garzanti, che considerava la propria casa editrice come una stanza dei giochi, in competizione con i suoi stessi autori, ma capace di blandire Gadda fino a farlo capitolare consegnandogli Il pasticciaccio. Una redazione, la sua, come non ne esistono più e dove sono passati in tanti da Giovanni Raboni a Lucio Felici, da Teresa Cremisi a Luisa Finocchi, da Piero Gelli a Gianandrea Piccioli.
È un libro di indiscusso valore, Album di Famiglia, non ultimo per la testimonianza diretta del lavoro editoriale di Scrittori che hanno contrassegnato la storia letteraria del secolo scorso. Italo Calvino: «contento di aver speso la maggior parte della sua vita per i libri degli altri» – che diventerà il titolo di un suo imperdibile testo – era un vero «talento maieutico che sa trovare le parole giuste per diventare propositivo», parlava poco e lavorava molto e non amava apparire, non era un presenzialista, credeva piuttosto che la vera educazione si fa con i comportamenti, «persino con i silenzi». E Cesare Pavese, che detestava «l’esibizionismo dell’esserci» e a cui stava a cuore ogni minimo ingranaggio della macchina editoriale, con la sua amata «Collana Viola» di studi etnologici e i suoi giudizi implacabili: «perché l’Editore si fa in primo luogo con i no». Suo un motto che sembra quasi passare in eredità a Luciano Foà che si siederà alla sua scrivania in Einaudi dopo la sua drammatica scomparsa: «Il lavoro va eseguito bene, a regola d’arte, solo lì si trova la vera grandezza». Insieme a loro, Primo Levi, artigiano sapiente, cui Ferrero dedica il ritratto indimenticabile di uno scrittore coltissimo che «pensava con le mani», l’esatto contrario di chi vive la scrittura come autoanalisi e terapia.
Un piccolo capolavoro il capitolo dedicato a Eugenio Montale, uno dei momenti in cui lo scrittore Ferrero si rivela maggiormente. La distance evocata all’inizio regala nelle pagine a lui dedicate momenti di vero piacere. Sublime la descrizione di una modalità tipicamente editoriale: tutti sempre con «l’aria di chi parla d’altro, o di chi si trova lì per caso, perché ogni smaccato ammicco promozionale era considerato una volgarità, una caduta di stile». Montale è anche «la persona con cui si rideva di più, principalmente delle pochezze umane, della vanità dei letterati», un poeta godereccio e umanissimo, felice di ritrovarsi di nuovo a Torino, città da dove aveva preso le mosse sotto il segno di Piero Gobetti.
Persone e personaggi felicemente immortalati nella loro quotidianità. Persino chi, come Roberto Calasso, «sembrava che indossasse una maschera», scrittore di libri «densi e complessi» e appassionato dei libri unici che – sulle tracce di Bazlen – andrà poi pubblicando per tutta la vita. Ritratti mai scevri di una sottile, affettuosa ironia, la stessa che si riserva a dei familiari e che ci si permette con gli amici più cari. È il caso dei cammei riservati a scrittori amatissimi e prematuramente scomparsi: l’acuto Daniele Del Giudice, colui che «usa strumenti freddi per una calda curiosità conoscitiva», Beppe Fenoglio «per sempre giovane» e Sergio Atzeni «cacciatore di storie» e di «ampi spiragli».
Indimenticabili le pagine riservate a tre donne autrici. Natalia Ginzburg, nata Levi, che aveva sposato il fondatore dell’Einaudi, Leone, «una voce coraggiosa» che già al tempo profetizzava che «avrebbe vinto il modello Carosello, il consumismo ebete». Elsa Morante ricordata insieme alla sua Editor Elena De Angelis che era una «specialista nella gestione di autori complicati». E Lalla Romano, l’unica cui è destinata una lettera, era «nata moderna» e sosteneva che «si può parlare solo di ciò che si conosce bene».
Ognuno meriterebbe almeno una citazione, ricchi come sono di particolari densi di significato. Da Bobbio che insegnava che «non contano le bibliografie, ma l’amore che hai dato e ricevuto, la cura che hai avuto per gli altri», a Mila, amante della vita e della montagna, quasi le due cose combaciassero in qualche modo, fino a Mario Rigoni Stern, che così bene sapeva raccontarla, la vita. Ritroviamo il sapiente e sottile Cesare Cases e il Ravelli «cacciatore di memorie», fino a Giuseppe Pontiggia, scrittore e editor, che raccontava di quando aveva chiesto udienza a Vittorini direttore dei «Gettoni» e lui gli aveva spiegato la (sempre valida) procedura: «Mi mandi il testo, mi telefoni dopo un po’, io le dirò che non l’ho ancora letto, mi ritelefoni, io mi irriterò, poi alla fine lo leggerò e ci incontreremo».
Non pochi i finissimi scrittori come Consolo, Celati e Orengo che ha lungamente lavorato sui libri degli altri. Con loro Goffredo Parise che «voleva raccontare con parole semplici cose che semplici non sono» e il troppo spesso dimenticato Paolo Fossati, cui dobbiamo tutti molto, basti pensare e alle Collane di «Storia dell’arte italiana» ed «Einaudi Letteratura» che seguiva personalmente.
Tre, anzi quattro, maghi davvero: Rodari che auspicava a una Fantastica (come abbiamo una Logica), lo spiritello aereo di Munari, e gli immaginifici Fruttero e Lucentini, la geniale coppia di autentici talenti cui andrebbe dedicato almeno un docu-film. Leonardo Sciascia ricordato come fotografo oltre che come ineguagliabile scrittore (e editore): «Del ritratto fotografico (gli) interessava non la verosimiglianza, ma la capacità di restituire il senso di una vita». Una frase che meritava forse la cover back del libro di Ferrero tanto appare valida anche per lui. E ancora: Umberto Eco «esploratore di labirinti» e un Pasolini fine letterato, cui la letteratura non bastava e che fugge dalla Fiera di Francoforte al grido di «è un lager, è un lager!». Svetta sugli altri un indimenticabile e indimenticato Cesare Garboli, con cui l’autore sembra proiettarsi più che in altri regalandoci pagine bellissime: «Più della letteratura gli interessavano le persone, tutto quello che la letteratura nasconde e rivela».
Rimane da chiedersi quale sia il comune denominatore di profili tutti diversi tra loro: paradossalmente, trattandosi di personaggi pubblici, forse la loro semplicità in quanto persone. L’operosità, la sensibilità e la medesima capacità di riuscire a nominare le cose con le parole e farne Letteratura. Non so se questo è un romanzo della scrittura, a me pare più un romanzo di chi crede nella scrittura. Un racconto di uomini e donne che credevano che il come si racconta sia e resti «infinitamente più importante di quel che si racconta». Album di famiglia è in tal senso un libro profondamente «einaudiano» che racconta in modo misurato e pacato, eppure vivissimo, lasciando sempre a chi legge ampi spazi bianchi da riempire con le proprie personali emozioni.
Un libro che non possiede nessuna delle terribili colpe che Giulio Einaudi considerava intollerabili: non è mai «noioso», non ha nulla del «burocrate» e non è un libro «erudito». Un libro che non delude, piuttosto appassiona e diverte, come ci piace pensare abbia divertito e appassionato Ernesto Ferrero nello scriverlo.