Il posto delle fragole

Ri leggere

Ogni volta che vado a camminare, faccio il gioco del se.

Un amico autore sostiene che bisognerebbe fare viceversa il gioco dei nonostante. Però io mi domando sempre cosa farei se.

E ogni volta mi rispondo che se potessi, se avessi, se fossi… io leggerei.

Lego legis legi lectum leggere, il latino ci ricorda che leggere vuol dire ascoltare, mettersi in ascolto, e anche delegare. A me piace pensare: delegare ad altri il presente, affidarti a storie che non ti appartengono, ma in qualche strano modo ti pertengono.

Per leggere ci vuole molta più concentrazione che per scrivere, e purtroppo in Italia tutti scrivono e pochi leggono. Che poi su cosa leggano ci sarebbe da disquisire. Mio figlio sostiene che io sia una “razzista culturale”, può darsi abbia ragione, più della metà dei libri che arrivano sui banchi delle librerie io non li avrei mai neanche pubblicati, figurarsi leggerli.

Leggere per me è come un respiro, un respiro non mio in cui entrare. Mondi sconosciuti e vite non tue che diventano più vere della realtà, pensieri perfetti che si stagliano davanti e ti rapiscono. Forse è per questo che ho deciso di diventare un editor, qualcuno che entra dentro una storia non sua fino ad avere l’ardire di cambiarla, modificandone le note di sottofondo o addirittura l’intera architettura narrativa. Perché per leggere, in modo professionale almeno, bisogna innanzitutto crederci. Leggere vuol dire anche guardarsi dentro, entrare nell’imo del proprio essere per parafrasare Svevo. Leggere è un atto d’amore. Devi concederti, lasciarti andare. Se non ti interessa il mondo fuori di te, se il tuo orizzonte non arriva oltre giardinetto di casa, allora non leggerai mai. Ecco perché diffido a priori da chi non legge.

A una lezione di Fenysia, durante il Corso di «Editoria e Comunicazione», dopo un collegamento via zoom con una mia autrice condiviso in classe, il nostro direttore Pierpaolo Orlando mi ha detto ridendo che una lettura da editor equivale a una terapia. Temo che abbia ragione, ciò spiegherebbe il motivo per cui, alla fine di un editing gli autori sono, in genere, abbastanza sollevati e grati e gli editor stremati. Far finta di essere tu l’autore per muovere il testo dall’interno e permettere poi al vero autore di farlo, richiede uno sforzo fisico non indifferente. Una sorta di disciplina interiore cui attenersi.

Ed è questa, credo, la grande differenza tra leggere per piacere e leggere per lavoro.

Leggere professionalmente richiede concentrazione. Non puoi e non devi lasciarti andare del tutto, devi restare vigile e un po’ distante, tenere a freno il tuo spirito critico, attivare (ma non troppo) il tuo lato creativo: un balletto in punta di tacco, in cui entri ed esci dal testo.

Da piccola io leggevo a tavola, è una cosa che non si dovrebbe fare, lo so, ma mettevo il mio Topolino tra il piatto e la bottiglia a sostenerlo e leggevo mentre pranzavo. Mi isolavo e stavo da Re. Poi, di solito strappavo – dopo aver letto beninteso – le ultime pagine di una storia a fumetti. Così, pensavo, la prossima volta avrei dovuto inventarmi una fine diversa, cambiarla. Avevo già un destino segnato e non lo sapevo.

Ho imparato a leggere guardando mia madre farlo e adesso che sono un genitore, capisco quanto sia importante che i nostri figli ci vedano leggere, è dimostrato che chi cresce in famiglie di lettori sia poi portato a leggere, da grande.

Mia nonna che «dato che era bruttina e non si sarebbe forse sposata», era stata mandata a studiare a Roma al Magistero – unica laurea concessa al tempo alle donne – e aveva avuto la fortuna di avere come Professore di Stilistica e Letteratura Italiana Luigi Pirandello.

Da ragazzina, i miei insegnanti mi mandavano a farle piccole interviste e lei mi ripeteva sempre la stessa cosa: «Più che leggere, quello lo sanno fare tutti, bisogna imparare a ri-leggere. Ri-leggere ciò che si scrive, quando si scrive qualcosa di tuo. E ri-leggere a distanza di tempo quando si legge qualcosa di altri. Perché ogni volta vedrai cose diverse. Il Maestro insegnava che i Personaggi delle Storie vanno da soli verso l’armadio delle loro esistenze e lì si vestono con i loro vestiti, quelli e non altri. Poi, leggendo e scrivendone, bisogna però saperli riconoscere – i vestiti – e cambiarli, se serve».

Calvino, in una sua lettura de I Promessi Sposi, ricorda alcune pagine del capitolo XXVII in cui si parla della «difficoltà a corrispondere tra Renzo e Lucia, attraverso lettere scritte da interposte persone», che – in epoca di abuso grafomane dei Social – resta una pietra miliare sul valore della lettura, condivisa loro malgrado dai due innamorati che non sapevano né leggere, né scrivere: «Bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui l’incarico della risposta: la quale, fatta sul gusto della proposta, va poi soggetta a un’interpretazione simile. Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è un po’ geloso; se c’entrano affari segreti (…) che ci avesse poi a toccare qualche scappellotto».