«Se c’è qualcosa di magico nello scrivere una storia, e io sono convinto che ci sia, nessuno è mai stato in grado di ridurlo a una ricetta che possa essere passata da una persona a un’altra.»
– John Steinbeck
Vi è mai capitato di finire sintonizzati su un’emittente locale e assistere a presentazioni di libri in tv? Difficile resistere alla tentazione di girare immediatamente canale. Sulle reti nazionali ci han provato in tanti, ma poche volte funziona. E perché secondo voi? Non sono una studiosa di comunicazione di massa, non ho alcuna voglia di far citazioni colte per avvallare ciò che penso, ragiono solo da amante della parola scritta e quindi del silenzio e del pensiero astratto, due cose che con la tv fanno fatica a stare insieme.
Il ritmo stesso della lettura, che è individuale e intimo, attraverso la televisione si disperde.
Ne abbiamo visti tanti provarci, pochissimi riuscirci. Ma perché? È solo questa la ragione?
Un’insanabile diaspora tra la parola detta e quella scritta?
Non è poi così vero, basti pensare a programmi bellissimi e vivi come La lingua batte, l’ormai inossidabile Fahrenheit e la meravigliosa Pagina tre dove Edoardo Camurri, con il suo «Buongiorno, buongiorno» apre ogni giorno la mente e il cuore (scusate la retorica involontaria) a ciò che ha senso leggere e non lasciarsi sfuggire, con un passo tutto suo, assai poco italiota, pop, cosmopolita, sempre divertente. Ma quella è radio! direte voi, allora è forse l’immagine stereotipata o meno del conduttore in sé che frena la scrittura?
Può darsi ci sia del vero, non indago oltre, però credo che c’entri di più la voce. La voce di chi legge, intendo.
Così come è sempre la voce dell’autore che facendosi scrittura crea narrativa nei testi, altrettanto è quasi sempre la voce di chi legge a far la differenza.
Ecco perché – ma è solo il mio punto di vista – la letteratura in televisione mi sembra che funzioni solo e a patto che il tramite sia un autentico narratore di storie.
Qualcuno che le storie le sappia davvero raccontare e non perché siano di per sé straordinarie o buffe o scabrose, ma perché – leggendo – crea narrazione. Ho sempre pensato che sia un dono, l’ho sempre riscontrato in Giovanna Zucconi (vi ricordate ancora del magico «Pickwick», trasmissione anni Novanta?) e l’ho ritrovato intatto l’altra sera, ascoltando il suo compagno di strada di allora: Alessandro Baricco su Rai Tre con “Steinbeck, Furore”, uno spettacolo portato in scena allo Spazio MRF di Torino Mirafiori con le musiche di Francesco Bianconi, frontman del gruppo toscano Baustelle. Una lettura drammaturgica, se così si può definire, o reading se preferite, che aveva debuttato in occasione dell’ultimo Salone del Libro di Torino.
Il romanzo su cui si basa (scritto nel 1939) è considerato il capolavoro dell’autore premio Nobel per la Letteratura, che nel riceverlo, nel 1962, disse testualmente: «Se c’è qualcosa di magico nello scrivere una storia, e io sono convinto che ci sia, nessuno è mai stato in grado di ridurlo a una ricetta che possa essere passata da una persona a un’altra. La formula sembra risiedere unicamente nel desiderio lancinante dello scrittore di trasmettere qualcosa che sente importante per lui come lettore. Se lo scrittore ha questa urgenza, talvolta, ma di sicuro non sempre, potrebbe trovare il modo per farlo. Devi percepire l’eccellenza che rende buona una storia o gli errori che la rendono pessima. Perché una storia pessima è solo una storia inefficace».
Ora, senza entrare nel merito del testo non casulamente scelto per ricordare il giorno dedicato alle Migrazioni, quindi anche senza rimandi alla realtà di oggi, la voce di Baricco ha saputo creare l’emozione di una storia portandola dentro le case, proprio grazie alla televisione. Così, semplicemente.
Si è messo lì, con il suo maglione sdilabbrato e l’aria di chi passava da quelle parti e ha fatto il miracolo.
Ha suscitato emozioni, pensieri, ci ha trasportato in luoghi e tra personaggi che non conoscevamo e li ha fatti vivere, ma non stava recitando, stava ri-creando.
Non so se a voi sembra poco, a me è sembrato tantissimo ed ero felice, il giorno dopo, a leggere su Twitter anonimi spettatori, che lo apostrafavano: «Ma dove vai? Torna indietro, dai, raccontaci ancora un’altra storia».
Ecco, questo è esattamente quel che servirebbe per far venire voglia di leggere.
Non (giammai) raccontarli i libri, ma farli vivere. Vivere veramente.