Il posto delle fragole

Il mestiere dell’editor e il gioco delle parti

 

«La verità… lo so, so che cercarla è giusto. È nobile. Ho fatto il giornalista per questo. Woodward e Bernstein, no? I due che mandano a casa Nixon, voglio dire, ho ancora il poster. Che poi a ripensarci bene il poster è quello del film ma, ecco vedete? Chi sono più veri? Woodward e Bernstein o Dustin Hoffmann e Robert Redford?»

Mentre leggevo uno dei libri più belli degli ultimi mesi: La ragazza sbagliata di Giampaolo Simi, quest’estate, mi sono imbattuta in questa frase. E mi sono ricordata di un’altra sera d’estate in cui vidi il Redford, confuso e bellissimo dei I tre giorni del Condor che diceva: «Ma ora che faccio? Io leggo solo libri». La mia passione per la lettura è partita anche da lì, dall’immagine di qualcuno che va in giro in bici e vive con la testa immersa tra le pagine di testi inediti. Mai lavorato per la Cia, ma il codice di segretezza delle case editrici non è mai stato da meno e l’ho sempre rispettato.
Questo blog che inizia oggi ha scelto il nome di un altro film, di Bergman, ma non c’è un senso preciso. A Lisa Innocenti che ha curato il sito e mi ha spinto a farlo è piaciuto subito, così è rimasto. Però non sarà un luogo dove parlare di editing, lo faccio ora e poi – prometto – mai più.

Questa dell’editing è un po’ come la storia delle mezze stagioni. L’armamentario lessicale quando se ne parla sui giornali è sempre lo stesso: parole precise e ricorrenti, «nascosto», ma anche «segreto», «personale».

Alla fine però la pallina si ferma e chi conosce questo mestiere sorride sornione, agli altri rimane intatta quel tanto di curiosità. Quando stavo imparando questo mestiere, Claudio Ceciarelli, che per me resta il migliore, mi disse che se continuavo a non vedere i refusi mi avrebbe mandato a pulire i caminetti. Pensai a Mary Poppins, alla mia voglia un po’ ossessiva di mettere sempre tutto a posto «per benino» come diceva mia mamma che era maremmana. Lo presi come un incoraggiamento, paradossalmente, ed ecco perché, come direbbe Vasco, dopo 25 anni «Sono ancora qua».

Ai tempi dell’Università, grazie all’estrema cortesia di Luciano Foà, ebbi modo di studiare la corrispondenza inedita tra Roberto Bazlen ed Eugenio Montale. Lettere fitte di consigli, suggerimenti a un autore che seppe farli suoi come in genere sanno fare i veri autori. Un lavoro da officina editoriale che piano piano è passato dall’esterno all’interno delle case editrici per poi tornare inesorabilmente all’esterno. Varianti d’autore che dovrebbero ormai chiamarsi varianti d’editore, come da decenni insegna Luisa Finocchi in Fondazione. Una lunga tradizione da Calvino e Sereni a Niccolò Gallo, fino a Grazia Cerchi e a Elena De Angelis, che vorrei ricordare qui insieme, come omaggio sincero, perché sono state le prime a occuparsi dei testi degli altri professionalmente sì, ma anche con partecipazione e affetto vero per i loro autori.

Con la Rete sembra ci sia posto per scrivere ovunque. Ma non è vero. È solo una scrittura orizzontale, non verticale. Per questo è ancora più importante la mediazione, uno sguardo esterno a quello di chi scrive.

Mancano le palestre per la lingua e le riviste letterarie, i critici veri sono rari e sono come atleti che si allenano da soli in palestra. E gli editor devono esserlo un po’ anche loro critici alla Renato
Serra, di quelli che penetrano dentro l’uomo e l’autore prima di sguainare le forbici, altro mito abusato, entrando dentro il testo per cambiare dall’interno ciò che non funziona, quel che proprio non va. Le case editrici io le ho amate tutte, le amo ancora se è per questo. Conosco la fatica inenarrabile che fanno tutti i giorni i pochi superstiti rimasti in trincea, ma sono ormai diventate essenzialmente luoghi di produzione, loro malgrado.

E allora chi aiuta l’autore a stemperare quel rosso vermiglio e gli consiglia un po’ di giallo laggiù? Un piccolo tocco soltanto, ecco così, vedi come è tutto più luminoso?

Ora mi si dirà che se era buio tale doveva restare, ma non è affatto vero. Il giallo che un buon editor suggerisce c’era già, solo che non si vedeva, era già lì, andava solo tirato fuori meglio. È la parte più delicata e rara di questo lavoro. E solo allora si acquista quell’indispensabile viatico che si chiama fiducia totale, senza il quale è impossibile lavorare sull’empatia e i ritmi – ahimé non solo stilistici – di un autore e del suo testo.

Ecco, tutto questo non vedo cosa possa mai avere di «segreto», ma certo è speciale e bello e durissimo a un tempo. Perché gli autori sono esseri autoreferenziali in modo peccaminoso e le redazioni ignorano in genere tutto quel che c’è stato prima. I tagli e la riscrittura, il piacere creativo condiviso. La fatica e l’allegria di mettere a posto il giardino insieme con l’autore e sempre dal suo punto di vista.

Cambiare è facile, ma far mutare come dall’interno il testo è operazione faticosa di artigianato puro.

C’è poi questa leggenda metropolitana che sia l’editor in realtà a scrivere i testi. Ma quando mai? Antonio Franchini una volta ha scritto che se gli editor fossero capaci di scrivere romanzi li
scriverebbero loro. Alcuni infatti lo fanno, lui per esempio, ma anche la mia dolce collega Laura Bosio o Alberto Rollo, amico e maestro che quest’anno è arrivato allo Strega. Alla fine però l’unica certezza all’editor viene dall’autore. È lui che ne riconosce il valore e alla fine del lavoro spesso non sa più neanche cosa c’era prima nel testo e cosa invece no.

Ed è questa è la fase più difficile, ma fondamentale: saper sparire d’un tratto, come se tu nel testo non ci fossi mai entrato.

Sarà forse per questo che mi son sempre piaciute le ghost stories? Quando me ne parlava Malcom Sky negli anni Novanta non sapevo neanche bene cosa fossero, poi piano piano ci sono entrata dentro anch’io. Ma da lì devo ancora provare ad uscirne, se mai lo farò.