Il posto delle fragole

Un due tre Stella

È accaduto all’improvviso, qualcuno ha detto: «Un due tre Stella», non so chi è che si è voltato e ci ha abbracciato tutti con lo sguardo. So che noi tutti, nel mentre accadeva, non ci siamo visti, è stato un naufragio senza spettatore, ma ci siamo fermati tutti in un istante. Immobili.

Dentro le vetrine, lì fuori, ci sono piante rimaste in esposizione, vestiti a sconto, film in programmazione. E dentro le nostre case ci siamo noi. Che abbiamo smesso di correre e ci abbiamo messo un po’ a capire davvero che cosa stava succedendo. Perché sentirlo dire in tv non basta. Devi avvertirlo davvero che adesso ferma devi stare. Che è il momento del silenzio, basta parole, basta discorsi, meglio guardarsi come dall’esterno, provarci almeno. 

L’inizio sembrava essere una sequenza senza comune denominatore. C’era quel signore siciliano che giustificava l’arrivo dal continente di una sua compaesana, arrivata a spargere il virus al paesello natio, «la conosciamo» diceva «è brava gente», perché lì ove conta l’appartenenza, che tu arrivassi da una zona Rossa o meno, sembrava quasi valere poco o niente, se sai chi è. E c’era il giovane in bicicletta, che nella zona Rossa invece ci abitava ed arrivava un metro prima del confine e poi tornava indietro, diligente, senza nulla proferire se non attenersi a una regola da seguire.

E i miei amici milanesi, impensabili da fermi: il milanese fermo è un ossimoro, una Milano cui voglio bene e che non riesco neanche a immaginare.

A Napoli si son subito organizzati, #lalineascritta è diventata immediatamente operativa on line. E c’è un grande albergo che ha messo a disposizione degli anziani il proprio personale per fargli compagnia al telefono.  Altrove non so. So che qui a Firenze, da dove scrivo, c’è chi fa spallucce se protesti perché si avvicinano troppo e c’è chi cambia strada e marciapiede a venti metri di distanza, ci sono i vecchietti impauriti e i millennial che si cercano on line, quasi il problema sia solo il non vedersi. Sicuri che passerà. Ma non passerà, io temo. Passerà il contenimento stretto, l’emergenza. Non passerà quel che questo grande esperimento di massa ha provocato e provocherà.

E poi, e infine, e adesso ci sono i nonni di Bergamo, i nostri nonni, una pena infinita per una generazione intera che non ha più tempo neanche di salutare.

Una mia amica Editora mi ha detto che noi abbiamo gli anticorpi, non fisici, ma mentali. Noi chi? Noi che leggiamo e studiamo e da sempre facciamo il punto barca alla scrivania, anche se la scrivania non c’è, ma usiamo le parole per mettere ordine nel caos, per rallentare o accelerare la realtà. Spezzettiamo la Verità, la incanaliamo nella Finzione e viceversa. Decifriamo e sfruttiamo più punti di vista, non solo il nostro. Credo abbia ragione. Leggere e leggere tanto è un buon antivirale al caos, a prescindere. Ma la differenza a me sembra sia soprattutto altrove. 

Mi è tornato più volte in mente uno dei ragazzi intervistati da Veltroni in I bambini sanno, un ragazzo fantastico, che viveva in una specie di sottoscala con i suoi e desiderava la maglia di un calciatore. Ecco, lui, loro, come stanno? Dove vanno? Perché per noi il disagio è nulla rispetto un adolescente cui levi tutto, la socialità, gli amici, lo sport, l’associazionismo. Un adolescente che magari non ha niente. Neanche un pc o la Rete in casa per connettersi con la scuola, nativi digitali è vero, ma anche analfabeti digitali al dunque, come dice un mio Autore Prof. E poi loro, i Professori, che con i nostri Medici ed Infermieri Eroi, sono da sempre le grandi Cenerentole dell’Italia. La Sanità d’eccellenza e la Scuola in trincea che è entrata fisicamente nelle nostre case. Adesso tutti a riconoscerle Principesse, ma poi? 

A me sembra un secolo fa che correvo a casa e correvo al lavoro e correvo per far cose. Per fare. Ora invece sto ferma e dopo tanto, nonostante tutto, sono.

Sono quella che lavora, comunque, perché penso che il lavoro ci salverà. Sono quella che cerca di aver pazienza, che cerca spazi in casa e chiude porte, si mette le cuffie per leggere o scrivere, passata in un lampo dal «mio» Impact Hub al «nostro» Family Hub. Sono una mamma prima di ogni altra cosa. Ma, paradossalmente, sono di nuovo io. C’è tempo per tutto e chiedersi il senso di come impiegarlo, il tempo, mi pare sia di per sé un lusso immenso, un lusso vergognoso con quel che accade intorno, un lusso da non sprecare. 

Perché dopo tutto, nonostante tutto, questo è niente. È ancora niente. Il domani non riesco a immaginarlo. Le coordinate aristoteliche di Tempo, Spazio, Numero e Luogo a un tratto non sono più collegate. Siamo tutti immersi in un luogo a-temporale, chiuso, dove apparentemente non scorre nulla, dove solo le parole, una dietro all’altra continuano a muoversi e se leggiamo, se pensiamo, se (anche) scriviamo, allora sì che ci muoviamo veramente. E proprio le Parole, non importa quali, ma non quelle estemporanee da Social, quelle lente e musicali della Letteratura un aiuto credo possono darlo e infatti lo danno. Fosse anche soltanto per vivere altre vite, per essere altri da come siamo, per immaginare un romanzo universale e davvero distopico, un testo non scritto i cui personaggi siamo noi, milioni e milioni di personaggi in cerca di autore.

Disegnate, scrivete, leggete, ma rannicchiatevi un po’ dentro di voi, magari mi sbaglio, ma bisogna diventare in fretta tutti più grandi e resistenti. La paura va accettata e respinta, laviamoci le mani e stiamo a casa, sì, ma non sprechiamo questo tempo enorme.

Facciamolo nostro, alla fine la privazione può essere un dono. Se non pensi solo a te, a me, a noi, se ti senti parte di qualcosa, se pensi a lui, a voi, a loro. Se provi a invertire l’ordine dei fattori, se smetti di pensare alla crisi che verrà, se guardi le cose un po’ più da lontano, se esci dall’ordine rigido e cerchi un «ordine in movimento», come esortava a fare Roberto Bazlen già più di sessant’anni fa. Ecco allora fai una capriola dentro e aspetti di vedere cosa accadrà. Non è detto sia tutto un male. Capire che andavamo tutti troppo in fretta, tutti troppo tutto, servirà. Domani.

Perché un domani, io credo, ci sarà.