Il posto delle fragole

Editor, editore

«Quante cose succedono nelle bozze»

Il brano qui riportato è apparso nella prima pubblicazione non in distribuzione (Gratis et Amore avrebbe scritto Formiggini) di un nuovo Editore: Acquario che sono particolarmente felice di presentare al mio piccolo pubblico di lettori. Il volumetto, denso di contenuti incentrati tutti sull’Editoria e sull’errore, il gioco, la “svista”, gode di un’eccezionale curatela editoriale/tipografica come non era dato di incontrare più da tempo. Disegnato con eleganza dalla grafica Paola Lenarduzzi, sorvegliato da Roberto Carretta è: Banda Larga, Acquario, Acquario, Torino, 2019. Nello stesso compaiono – tra gli altri – brevi e illuminanti saggi di: Stefano Bartezzaghi, Marco Belpoliti, Edoardo Camurri, Giulia Vola e Francesco M. Cataluccio. Il contest, per usare un termine quantomai appropriato in questo caso, ha anche una sua doppia faccia musicale, alias un Soundtrack Acquario dove troverete in primis la coppia Lennon – McCartney, poi G. Harrison, Bob Dylan, The Beatles e i Pink Floyd, in omaggio agli inventori di nuovi mondi e con l’invito esplicito ad «assumersi un rischio, ad allargare lo sguardo». Un disegno inedito di Roberto Bazlen, «il viandante che ci guida», e naturalmente un sito a cui rimando per ogni approfondimento del caso acquariolibri.it. Ringrazio gli Editori: Anna Foà e Marco Sodano per la gentile concessione nella riproduzione del brano.

Milano sfrecciava nel buio fuori dalla macchina di grossa cilindrata, eravamo andati a parlare con un Tizio che da lì in avanti sarebbe diventato famoso per le sue invettive politiche ed eravamo entrambi molto stanchi, l’Editore e io che di mestiere faccio l’Editor (senza la «e»). Forse fu per quello, o forse non c’eravamo capiti in uno dei nostri dialoghi surreali in cui non nominavamo mai l’Autore o il libro. Ma insomma accadde. Che, riferendosi con il consueto garbo a uno dei romanzi che stavo seguendo, mi chiese se, insomma, se proprio non fosse possibile far sì che in un momento preciso del racconto, quando i personaggi si trovavano la sera tardi in una casa di fortuna, dove entrambi erano approdati per ragioni diverse, se be’ non potessi trovare il modo di far succedere qualcosa tra loro. Del resto, erano o non erano un uomo e una donna? Erano o non erano soli e sfiduciati dal destino? Bisognosi di calore, di amore, anche. Perché allora non spingerli a consolarsi, ecco.

Dovevo solo trovare il modo di dirlo all’Autrice, di suggerirglielo senza forzarla troppo, comunque era deciso ormai, una bella scena d’amore ci sarebbe stata bene, no?  Silenzio.

Un po’ perché non era facile contraddirlo, un po’ perché non ho mai spinto gli Autori a raccontare altro da ciò che non avessero già in mente. Il silenzio a volte è un modo di rispondere. Come dirgli altrimenti che essendo il personaggio maschile dichiaratamente omosessuale, un rapporto seppur occasionale tra i due sarebbe stato quanto meno improbabile?

Ho sempre pensato che ogni testo abbia una sua anima, un suo volto, tu devi solo tirarlo fuori come un bassorilievo che diventa scultura.

Devi aiutare chi scrive a non aver paura della propria voce, non sovraccaricarla di troppe parole. Devi rispettare il testo e non forzarlo. Il testo è quello, ci si può e ci si deve lavorare, certo, uno scritto può migliorare con un lettore esterno al fianco. Ma non puoi trasformare un lungo racconto, pieno di nostalgia e mistero, in un Giallo solo perché in quel momento i Gialli vendono benissimo. Perché no? mi chiese infatti come fosse la cosa più naturale del mondo un Direttore commerciale che credo pensasse che io null’altro facessi se non parlare con gli Autori, mentre loro, i venditori, loro sì che il libro sapevano valorizzarlo. Come dargli torto, del resto, guardando i numeri? Libri costruiti a tavolino che scalano le classifiche e testi per lettori forti pubblicati da Editori senza vera distribuzione. L’Editore una volta lo vedevi, ci parlavi, la sua era una presenza costante, tangibile, una voce precisa che arrivava ai lettori attraverso le bandelle che scriveva personalmente. Un uso nato quando Consulenti letterari e Autori erano parte integrante della Casa, come Leonardo Sciascia, per esempio, che scriveva i risvolti e quando presentava i propri libri parlava di sé in terza persona.

Roma è una città meravigliosa dove in campo editoriale «le rotelle» si muovono da sempre vorticosamente: «Vediamo gente, stringiamo contatti, scopriamo idee con ritmo superbo» scriveva Cesare Pavese.

La verità è che il nostro piccolo mondo non è diverso da quello di altre professioni: contano le competenze, certo, però contano moltissimo soprattutto i rapporti umani.

La Cultura è rispetto delle persone e la gentilezza vera fa sempre la differenza. Tranne eccezioni… Mega studio di un Editore: arriva un’Autrice (brava, non brava, che importa?). La volevano altri, ma aveva accettato di parlare con Ello; la sua Agente del tempo era mia amica (lo è ancora per fortuna). Così, mentre si parlava del più e del meno, con quell’aria del “passavo di qui per caso” che è regola non scritta del nostro mondo, retaggio di un milieu letterario e assai poco concreto, arrivò come un fulmine la sferzata «l’Agente che ti rappresenta è la peggiore in Italia!» disse l’Editore quasi urlando davanti all’Autrice annichilita e stupefatta da tanta violenza verbale. Che fai in quei casi? Silenzio.

È paradossale che per noi che con le parole lavoriamo, le spostiamo, cambiamo, rispettiamo, amiamo, ci giochiamo, il silenzio a volte sia l’unica nemesi possibile, ma così è. Un’arma di difesa in un mestiere non facile, in equilibrio precario tra la cura del testo e la pressione esterna dovuta alle scadenze di “produzione” (parola ostica se usata per i libri). L’Editoria non è una Scienza esatta, anche se alcuni pensano che lo sia. Esiste l’arbitrio, l’eccezione, il particulare che fa la differenza, la difficoltà oggettiva.

Se mi dovessero chiedere cosa serve per essere un buon Editor, direi l’elasticità, essere morbidi, accoglienti, sorridere e a volte saper tacere, appunto.

Niccolò Gallo, storico Direttore di collane di narrativa alla Mondadori, pare lasciasse sempre l’ultima parola all’interlocutore, uno stile editoriale preciso che si è perso. Sarà per questo che gli unici problemi, dopo ore di discussioni sui testi con l’Autore, nascono in genere con le Redazioni, capaci di accanirsi per ore sul punto fuori o dentro le virgolette. Ad avercene peraltro (ormai) di Redattori in epoche come queste di server esterni, che non sai mai chi o come ha fatto cosa e dove, dato che adesso è uso intervenire direttamente sul testo con segni digitali che all’Autore appaiono come punture di spillo sul corpo inerme del suo libro.

Poi accade l’imprevisto. Ci sono tempi stretti, tutto deve essere pronto per ieri. Mentre l’Autore sta ancora scrivendo qualcuno deve già venderlo, e qualcun altro inventarsi non solo una trama che ancora non c’è, ma addirittura una cover, un titolo, un’atmosfera da poter raccontare alla stampa. L’Autore acconsente, sopraffatto dall’ansia di solito. Non sono più i tempi (da decenni) del rispetto dei tempi della scrittura ed è sempre più faticoso far funzionare i rapporti in un’industria dove il “prodotto” è ogni volta diverso. Dove non c’è mai una continuità, neanche tra i libri dello stesso Autore. Perché ogni volta si ricomincia, si deve ricominciare. E l’imprevisto è lì, ti aspetta, ti coglie di sorpresa.

Come è accaduto con un libro per il quale ero entrata in luoghi altrimenti non accessibili e parlato con persone che vivevano sotto scorta. Dopo varie e complesse stesure, seguite con una certa apprensione in presenza di atti giudiziari, avvocati, verità non altrimenti svelate e dopo molti mesi di lavoro, alla fine arrivammo a un testo da poter fare impaginare. Sapevo che c’erano ancora problemi da risolvere, sapevo dove e sapevo perché, ma pensai che era meglio cominciare a vederlo il libro. Avevo avvertito la Redazione, ma a un tratto mi ritrovai davanti all’Editore a doverne rispondere…

Tra gli Editori e gli Autori, c’è chi pensa che gli Editor siano l’arbiter, invece siamo scudi umani viventi.

Gli Autori sono un po’ matti, inquieti, inaffidabili a volte, autarchici, egocentrici, cambiano idea, non vedono i propri errori. Ma hanno fantasia, una loro visione delle cose, sentono e conoscono meglio di chiunque altro i loro libri. La Casa editrice invece ragiona come fosse una galassia a sé: «Abbiamo sempre fatto così…». A meno che l’Editore, l’Autore e il Curatore non lavorino insieme e la Casa non sia espressione di questa intesa: quel che mi auguro sia Acquario.

«Sapessi quante cose succedono nelle bozze», scriveva Italo Calvino, ed è vero: il nostro è un mestiere che non si può raccontare a chi non conosce una Casa editrice. A chi immagina che tra Autore ed Editore non ci sia nulla se non lo stampatore. Ieri c’era chi faceva libri bellissimi e volutamente poco commerciali e poteva quindi permettersi di dire: «Non l’ho letto e non mi piace». Oggi però il piano si è completamente capovolto e il dato economico non è più eludibile. Ma, nel mio piccolo, non capirò mai le ragioni, se ragioni sono, per le quali un Autore di assoluto valore che ha scritto un testo bello e importante non può essere pubblicato perché nello storico dei librai (cioè i dati vendita pregressi) risulta poco spendibile commercialmente. Magari ha scritto un libro diverso in precedenza, magari non tutti i testi sono uguali, magari hanno sbagliato la copertina o l’hanno posizionato male sui banchi della libreria. Magari è il suo capolavoro. Magari leggetelo. Magari.

Mi tornano in mente le parole di una grande Editrice che amava ripetere che se un libro è brutto, l’editing non serve, perché semplicemente non si deve pubblicare. Che sembra scontato, ma scontato non è. E andrebbe ribadito con forza, visto che dai tempi dei «Gettoni» di Vittorini in poi si è spesso finito per farne un uso improprio. L’editing in sé non dovrebbe mai servire a cambiare o rendere uguali tutte le scritture, altrimenti la Letteratura che cos’è? Una redazione infinita di aggiustamento degli “errori”? Un Editore outsider del secolo scorso diceva che senza un refuso un libro non è vivo, è morto. Quel che conta è piuttosto la voce dell’Autore, l’intelligenza di un testo che racconta qualcosa di nuovo. Importa saper sentire il cuore del libro.

Un Editore, che era un gigante e a cui dobbiamo davvero tanto, si alzava presto al mattino e rivedeva all’infinito i testi che avrebbe pubblicato. Ma lui e pochi altri era come se fossero anche un po’ Autori ogni volta dei libri che curavano: libri come perle (vere) di una collana (non solo editoriale). Il lavoro editoriale come forma di espressione. Gobetti che nel 1925 andava pubblicando Ossi di Seppia, scriveva già al tempo: «Penso a un Editore come a un narratore».

Anticipare e non seguire l’onda: creare tendenza e sollevare il dubbio. Pubblicare libri per lettori che (ancora) non ne avvertono la necessità.

Non si tratta certo di educare ideologicamente qualcuno, ma di porre questioni, motivare nuove domande. È questo che in genere fa la Letteratura: nomina le cose, apre a mondi che non immaginiamo, inquieta, rallegra. Oggi la divisione tra piccoli e grandi editori ha molto meno senso che in passato, perché tutti vogliono pubblicare solo quel che si vende all’estero o che è stato prenotato in “cedola” dai librai (a volte persino quando il testo ancora non esiste). Francamente non so come spiegare cosa vuol dire aver cura di un testo. Predisporsi ad ascoltare, forse. E a non rispondere, anche. Charles Dickens quando partì per l’America a proposito del copyright, al tempo inesistente, scrisse che con gli Editori bisogna imparare a lavorare sì, ma cum grano salis.