Nella rubrica “Posta del cuore” su Specchio, che dirigeva, Massimo Gramellini scrisse un pezzo formidabile sulla morte di sua madre, era da poco mancata la mia mamma e fu come un treno in volto. Non lo conoscevo, ma lo cercai e ci incontrammo una prima volta all’Hungaria di Roma. Volevo fargli scrivere un libro, c’era molta narrazione nei suoi pezzi giornalistici. Raccontato oggi fa un po’ ridere, ma così andò. Aveva un progetto a quattro mani con uno scrittore che stimavo e con cui ci interfacciammo per diversi mesi. Poi non se ne fece di nulla e quando, anni dopo, approdai a Milano e me lo affidarono come autore pensai fosse destino lavorare insieme. Ho visto la Sala dei Cinquecento al Salone di Torino stracolma di lettori adoranti, ho visto tassisti pronti a farmi lo sconto purché lo salutassi quando andavo a trovarlo al giornale, ho visto Massimo in veste casalinga con il suo cappellino da Jack Nicholson da cui non si separa quando scrive. L’ho visto arrivare nelle case attraverso il tubo catodico prima impacciato e poi sempre più spigliato e vincente. Ho ascoltato lunghe telefonate da maratoneta, alla fine delle quali lui andava a scrivere per La Stampa e io crollavo stremata per ore. Ho letto mille “Buongiorno” e non pochi “Caffè”, visto la sua scrittura crescere, fortificarsi, staccarsi dal modulo della cronaca e diventare prosa piena, racconto, romanzo. Massimo ha il cuore tenero da Bilancia, sotto la scorza da Leone. Ed è a quel cuore che resterò affezionata per sempre.
Published on 7 Gennaio 2018