«Sono andata in uno di quei supermarket della carta stampata: ci sono immagini luminose in video, tipo. “Se compri una cosa ti diamo anche un libro”». Io ho detto al commesso: «Cerco E. E. Cummings». Quello ha detto, «Fai da te, seconda fila a sinistra». E io ho detto, «Ma voialtri vendete ancora libri, o cosa?»
Due battute appena. Dentro tutta l’annosa questione del vender libri, oggi. Eccola la forza del teatro. Eliminate del tutto le pause narrative, ridotte le descrizioni, abolito il narratore, restano solo i personaggi e le loro parole. È il caso di un diamantino testo teatrale che mi è ricapitato tra le mani da poco, scritto da Jon Robin Baittz, e tradotto diversi anni fa per Sellerio da M. D’Amico, un Maestro che veleggia ormai verso i 90.
Ne parlo qui, perché credo che dovremmo tutti finirla di usare i testi come vestiti dell’ultima collezione. Il gioco è sempre quello di citare unicamente quelli appena usciti, possibilmente anche in classifica o comunque di amici o amici degli amici.
Vorrei scendere da questa giostra, per questo ho scelto un testo uscito molti anni fa, solo perché è bello. Basterà?
E comunque ecco qua. La storia si svolge in due interni, entrambi sede di una Casa editrice a conduzione familiare. Ci sono molti libri, archivi pieni di polvere, un anziano editore ebreo e i suoi tre figli.
Atto primo: siamo sulla 23ª strada, Brodway, è il 1987. Isaac, l’editore, è un tipo orribile e affascinante a un tempo. Intransigente, rigoroso, egoista, narciso, fragilissimo. Una vita devastata dai libri, niente sesso, niente amici, solo libri, la sola cosa cui si sappia rapportare. La realtà fuori sembra non interessargli.
I suoi tre figli Aaron, Sarah e Martin hanno vite differenti, ma un problema in comune: avere la sua approvazione. La questione che devono affrontare è: pubblicare o meno un testo ricco di riferimenti pruriginosi, piuttosto banale, zero spessore narrativo, che però si venderà probabilmente molto bene e potrebbe salvare i loro conti in rosso?
Il vecchio editore cui sembra volgare anche solo parlare di soldi, fallirà, ma resterà fedele a se stesso. Aaron svenderà la Casa editrice a una multinazionale giapponese. Martin resterà da solo a rappresentare una famiglia che non c’è più, con accademico distacco, perché tanto, «Oggi, nessuno ha una vita». Sarah che non a caso è una donna, sembra non volersi arrendere al destino e rimane in scena a ricordare la disgregazione: «Le famiglie crollano, lo sapete? Nessuno si parla più». Perché quindi rischiare anche noi l’incomunicabilità, ripete: «Sono solo libri», in fondo.
Chi se ne frega, dice ancora, dei soldi? Così ci perdiamo, ci siamo tutti già persi e non lo capiamo.
Dovremmo amarci e invece guardate: ci stiamo scannando. Sarah è l’unica che, allontanandosi da tutto, alla fine si salverà. L’espediente drammaturgico lascia il posto al tema centrale: l’attesa di riavere ciò che era nostro e abbiamo smarrito quasi senza accorgersene: cultura, amore, vita.
Inizia il secondo atto: siamo in un vecchio appartamento a Gramercy Park, tra anni dopo. L’editore è solo, la sua passione sono sempre i libri, ma i libri hanno divorato la sua vita. Con lui adesso c’è Marge, anche lei ha perduto tutto, New York l’ha vinta ai punti e ha dovuto inventarsi una nuova esistenza. Però lei guarda altrove. Cerca nuove opportunità, ci prova almeno. Fuori dai libri e dalle parole. Dentro – più dentro possibile – alla realtà.
Perché la vita è sempre altrove e questo chi legge in genere lo sa.